Scampia terra del dialogo: Chi Rom e chi no…puro talento italo-rom

Da una baracca abusiva a un laboratorio di teatro, fino ad arrivare a un ristorante: a Scampia vincono l’accoglienza e l’integrazione socio-culturale tra cittadini e comunità rom. L’Associazione “Chi Rom e chi no” risveglia le coscienze della periferia e trasforma il talento delle donne in un’impresa sociale gastronomica.

Abbiamo incontrato Barbara Pierro, fondatrice della Onlus Chi Rom e chi no. La storia che ci ha raccontato è la testimonianza concreta di chi crede nella vocazione dei luoghi e nell’incontro tra le persone.

“Sono di Mugnano, ma ho frequentato le scuole superiori a Scampia, e sono qui da sempre. Come tutti i miei coetanei mi sono spostata dalla periferia verso il centro di Napoli per frequentare l’università. Sono ritornata nel quartiere con un’idea nella testa: offrire alle persone occasioni culturali in cui confrontarsi”. Barbara Pierro era entrata in contatto con il GRIDAS (Gruppo di risveglio dal sonno) perché seguiva un percorso di formazione sulla pedagogia; è un’avvocata, ma si è sempre interessata alle discipline educative, soprattutto agli studi di Don Milani e “in particolare all’importanza di relazionarsi con l’altro, ma anche a quel desiderio che ti nasce dentro quando vuoi cambiare ciò che non ti piace intorno, agendo in prima persona”.

Barbara Pierro – Chi Rom e chi no

A quei tempi Barbara era volontaria di un gruppo di azione popolare impegnato nel rione Case dei Puffi a Scampia per un progetto infrasettimanale di doposcuola e campi estivi: “L’esperienza è durata circa tre anni. Insieme a questa realtà popolare ho avuto la possibilità di partecipare al Carnevale del GRIDAS. Continuando a frequentare il gruppo di giovani è cresciuta poi l’esigenza di organizzare una dimensione più stabile in cui poter concretizzare il nostro impegno e ripensare meglio al rapporto tra centro e periferia, ma ci serviva uno spazio in cui incontrarci”. Il luogo giusto per l’occasione è stato il campo rom non autorizzato di via Cupa Perillo: “Decidemmo di cercare proprio lì uno spazio per le attività. L’avevo già visitato diverse volte. Fummo accolti e coinvolti nella costruzione di una baracca autogestita che era rimasta lì per ben dieci anni”.

Nell’immaginario comune Scampia è il “luogo periferico” per eccellenza dove lo spazio per le relazioni tra persone e comunità è del tutto assente. Non si discute, è un territorio complesso e instabile, ma proprio in questo quartiere è stato possibile creare e consolidare connessioni significative e trasversali.

Un confine sociale da abbattere

Scampia è la periferia con il più alto tasso di urbanizzazione; accanto alle famiglie napoletane emigrate, convive una comunità rom proveniente dalla ex Jugoslavia, giunta a Napoli con una migrazione avvenuta in varie fasi in seguito ai primi segnali della guerra etnica. È una comunità stanziale, oggi alla terza generazione, di cui alcuni membri riescono a ottenere anche la cittadinanza italiana e a far valere i propri diritti sociali.

La storia di questo riscatto ha inizio tra il 2003 e il 2004, in piena faida della camorra, quando un gruppo di giovani studenti si incontrò per discutere sull’idea di trasformare gli spazi pubblici e rivendicare il diritto all’abitazione. Tra questi volontari c’era anche lei, Barbara Pierro, madre e fondatrice della Onlus Chi rom e… chi no. In quegli anni, come ci ha raccontato, offriva il proprio tempo libero in un servizio di doposcuola a Scampia per ragazzi rom e per giovani provenienti dalle case popolari.
Questi volontari si sono resi conto che per dare continuità al progetto e per avviare un vero confronto e un reale coinvolgimento, la soluzione non era certo l’assistenzialismo. Per costruire qualsiasi cosa era necessario l’aiuto di tutti e l’autofinanziamento, è così che la partecipazione attiva di ciascuno avrebbe messo in gioco un vero sistema di relazioni. Ed ecco perché nacque la baracca autogestita.

Il pregiudizio che pesa sui rom, rispetto ad altre etnie straniere, è forte al punto tale che diventa difficile valutare in modo positivo la loro presenza nella comunità locale. Ma le relazioni dal vivo aiutano presto a cambiare idea e a conoscere meglio chi si ha di fronte: “Averci a che fare in modo diretto ti dà una prospettiva diversa sulla base di una relazione paritaria con l’altro”.
Barbara ci spiega la natura urbanistica di Scampia con una visione chiara e consapevole: il quartiere ha una natura “composita” di edilizia privata e campi rom. Nella prima, sono venuti ad abitare cittadini della media borghesia e di varia estrazione popolare giunti dalla città alla periferia in seguito al terremoto dell’Ottanta o alla congestione del centro urbano; i secondi, invece, esistono su questo territorio periferico da oltre venticinque anni, e sono forse i veri autoctoni di Scampia. “Provate a chiedere a un residente delle Vele di Secondigliano chi fosse già presente sul luogo al momento del loro arrivo…”. Oggi il campo rom confina con il quartiere popolare ed essi vivono in baracche costruite con le proprie forze.

Occupare una baracca per dieci anni è in effetti un atto abusivo, ma il destino di un non-luogo come questo sarebbe stato, altrimenti, l’incuria e l’abbandono. E invece la baracca è diventato il luogo dello scambio e del confronto, a partire dal laboratorio di teatro. A testimonianza della volontà di invertire la dicotomia centro-periferia, questo laboratorio è stato visitato anche da Marco Martinelli (fondatore del Teatro delle Albe di Ravenna) e dal regista del film Gomorra, Matteo Garrone (alcuni attori impegnati nella sua pellicola provengono proprio da questa fucina culturale).

Un teatro nato nella baracca

La baracca dunque è diventata un luogo di scambio, di controinformazione e di critica sociale, che rompe quel maledetto confine tra campo e quartiere. Nella baracca si gestiscono laboratori per ragazzi, attività di doposcuola, percorsi di alfabetizzazione per adulti. Chi rom e… chi no significa sia il superamento di una etichetta puramente etnica, “tu sei rom”, sia un progressivo risveglio di coscienze addormentate. In fondo, lo sappiamo, “chi dorme non piglia pesci”, e in napoletano c’è chi rorm’ e chi no.
Napoletano o rom non ha importanza, “il teatro della baracca” ha accolto e coinvolto tutti i residenti del quartiere perché ognuno ne è potenziale espressione. Lo stereotipo esiste, ma può essere superato e ribaltato puntando a un confronto diretto, superando le discriminazioni, entrando in contatto con l’altro e impostando una relazione paritaria. “Queste persone dovevano capire di non essere solo destinatari dell’intervento, ma partecipatori attivi”, questo è stato uno degli obiettivi di Barbara e del suo gruppo di volontari.

“Gli abitanti che vivono nel campo rom sono abituati a politiche assistenziali, con un processo di delega verso qualcuno che deve trovare una soluzione ai loro problemi. Noi volevamo invertire il concetto e fare tutto insieme: cucinare, organizzare feste, autofinanziarci… proprio per mettere in gioco le relazioni”. All’inizio la presenza del gruppo di volontari nel campo venne interpretata dai rom come un intervento delle istituzioni scolastiche, tanto che l’attività di istruzione fu chiamata “Scuola giungla” per alludere a una scuola nuova, più viva, ben voluta, inserita nel bel mezzo del verde di Scampia, nella sua “giungla”.

Da questo costante incontro con le famiglie e con i bambini è nato nel 2005 Arrevuoto che, da semplice gruppo costituto sull’eredità degli insegnamenti di Felice Pignataro, si costituisce “Associazione di teatro e pedagogia” nel 2012 dando il via a laboratori e collaborazioni con il liceo “Genovesi” e il liceo “Elsa Morante”, fino al progetto Punta Corsara per Napoli Teatro Festival. Oggi Arrevuoto è a tutti gli effetti una compagnia teatrale vincitrice di due premi nazionali, contro ogni previsione di fallimento, per aver puntato tutto sul coinvolgimento dei rom.

La cucina come spazio di dialogo

Donne, sinergia, cucina. L’emarginazione sociale si risolve lavorando e ragionando su un discorso allargato che coinvolga: coinvolgere è la chiave del successo di una comunità. Chi rom… e chi no ha puntato soprattutto sulle donne quale motore attivo della famiglia e della società. Non si tratta di femminismo, Barbara lo chiarisce subito. Le donne napoletane incontrano le donne rom in uno spazio di confronto in cui raccontano la propria esperienza e le problematiche delle quattro mura, che sono le stesse di qualunque madre o casalinga al di là dell’etnia di appartenenza. Dal dialogo si è passati alla cucina, luogo di affermazione della tradizione ma anche veicolo di emancipazione sociale.

Nel settembre 2010, grazie alla vittoria di un bando indetto dalla Presidenza del consiglio dei ministri Dipartimento per le Pari Opportunità Unar (Unione nazionale antidiscriminazione razziale), è nata la Kumpania Percorsi gastronomici interculturali che ha messo insieme donne rom e donne di Scampia. L’espressione kumpània in dialetto rom evoca il clan, la “famiglia allargata”, ma la sua pronuncia richiama anche ‘a cumpagnia della lingua napoletana.
Nell’aprile 2013 Kumpania si costituisce come impresa sociale, cerca uno spazio in cui consolidare l’attività culinaria e creare un nuovo polo culturale. Insomma, la baracca si evolve: Chi Rom e chi no prosegue nella sua battaglia.

 

La Compagnia delle donne

Nel novembre 2014, sopra l’Auditorium di Scampia apre il primo ristorante italo-rom di Napoli (e di Italia): Chikù Gastronomia Cultura Tempo libero. Restiamo incuriositi quando Barbara ci svela che “Chikù è una fusione di Chi rom[… e chi no] e Kumpania”, quasi un combo all’ennesima potenza di tutte le idee finora maturate a Scampia.
Lavorare in cucina è un modo di combattere la discriminazione dell’“essere donna”, di essere di Scampia e di essere rom. È l’emancipazione attraverso il lavoro, è l’opportunità di trasformare un talento e una passione in un business, con l’obiettivo a lungo termine di non dipendere più dal finanziamento pubblico, ma di farcela con le proprie forze.

Era opportuno, e lo è ancora oggi, superare quella reciproca discriminazione tra rom e napoletani, intraprendere percorsi professionalizzanti (resi possibili grazie al partenariato con enti di formazione) per costituire un’impresa, assumere competenze di base nella gastronomia e rendere autonome queste donne. Durante i laboratori sono stati previsti anche spazi per i bimbi in modo da permettere alle mamme di potersi dedicare alla loro passione. Creare un’idea di lavoro per queste donne non vuole però intaccare le loro priorità, cioè la casa e la famiglia, al contrario si mira a trovare una chiave per fare in modo che l’identità donna-casalinga non venga meno, con uno spazio e una visione aperti a nuovi sviluppi.

Inaspettatamente la compagnia vince due premi internazionali per l’innovazione sociale. Il primo è stato consegnato negli Emirati Arabi da Kofi Annan come quinto premio durante una conferenza quale “migliore progetto capace di coniugare l’esperienza sociale a quella professionale”, e un secondo riconoscimento è arrivato a Napoli in un contest promosso dall’Alleanza delle Civiltà e da altri enti partecipanti. La storia della compagnia era giunta a una svolta: “Per fare evolvere il progetto a vera impresa sociale, ci viene chiesto di presentare un business plan e un bilancio previsionale. Se pur tra difficoltà e inesperienze, con l’aiuto di amici e professionisti validi siamo riusciti a raggiungere l’obiettivo: nasce Chikù, impresa sociale che ancora oggi detiene il primato italiano quale spazio di gastronomia e cultura in cui donne rom e donne napoletane lavorano a stretto contatto per costruire insieme”.

Chikù: ristorante italo-rom a Scampia

Chikù, il ristorante dell’aggregazione sociale

La fortuna aiuta gli audaci, si sa: nessuno si presentò all’assegnazione di quello che è oggi l’attuale immobile in cui esiste l’impresa. Se pur senza alcun merito, il progetto Chikù vinse il bando del Comune di Napoli per l’affidamento di ben sei anni. Lo spazio era stato concepito in realtà con la vocazione di buvette dell’Auditorium di Scampia, ma nonostante alcune stagioni felici, le Amministrazioni non sono riuscite a far proseguire l’eredità teatrale a cui lo stabile era destinato. Ecco perché progetti come Arrevuoto e Punta Corsara hanno costituto una nuova speranza sia per la struttura sia per la periferia stessa: laddove la catena debole delle istituzioni è venuta meno, questi “nuovi eroi dal basso” si sono rimboccati le maniche ponendosi come generatori di processi culturali e ammortizzatori sociali. E Chikù, facendo leva sulle passioni e sulla forza delle donne, sta mirando a creare processi economici sostenibili per l’economia del quartiere.

“Crediamo in un’impresa sociale che deve seguire scopi etici ma sostenibili; stiamo lavorando per acquisire quella capacità imprenditoriale necessaria e, fino a ora, in assenza di capitale proprio, l’attività è andata avanti grazie a una serie di premi che ci hanno permesso di ristrutturare lo spazio e acquistare le attrezzature. La Fondazione Vismara ha supportato il costo del lavoro, così come prezioso è stato l’apporto di Fondazione Con il Sud, e di Fondazione UniCredit per le infrastrutture.”

Chikù è l’unico ristorante del quartiere. Se continuate a chiamare Scampia “ghetto” sappiate però che oggi conta circa ben 60 mila abitanti e, per chi ci crede e lo sperimenta, è un vero propulsore di cultura e di attività sociale che nulla ha da invidiare al centro storico della città. Ciò che avviene in periferia è di altissimo livello, “devi essere tre volte più bravo e più forte” conclude Barbara. Questo incubatore rappresenta oggi un passo in avanti nella mediazione e nella lotta allo stereotipo dei rom. Chikù vuole essere un’“occasione per vivere il quartiere”, un punto di riferimento per gli abitanti, lavoratori e non, un punto di riferimento per lo svago, per la socialità, per stare insieme. È un progetto innovativo, forse anche visionario, folle, ma che ha puntato sulla sfida forse più difficile in assoluto: guardare l’altro negli occhi, aprirsi e relazionarsi.